Gli investimenti sui derivati dei Comuni italiani: un focus

Per più di vent’anni i Comuni d’Italia hanno sottoscritto contratti finanziari derivati, che si sono spesso rivelati forieri di perdite enormi nei vari bilanci di ogni ente

Gli strumenti finanziari derivati – protagonisti dei contratti di cui sopra – hanno incluso swap, opzioni o forward e future. Il valore di questi strumenti si subordina a quello di ogni attività sottostante, come per esempio titoli, merci, valute, indici finanziari, crediti, ect., impiegati per tutelare imprese e realtà affini da rischi diversi relativi alle singole attività (rischi di cambio, oscillazione prezzi materie prime, tassi di interesse, rischio di credito, ect.). Ogni strumento finanziario del tipo quotato sui mercati regolamentati appare standard circa le scadenze, l’ammonto e il termine di consegna; gli strumenti confezionati invece in dipendenza delle esigenze peculiari del fruitore – ad oggetto di attività o scadenze non praticabili all’interno dei mercati organizzati – sono definiti Over the Counter (Otc).

A rivelarsi totalmente negativo ed impattante in questo settore è stato l’uso errato dei derivati principalmente da parte degli enti locali di dimensioni modeste e con una conoscenza povera dei vari strumenti a disposizione e dei mercati finanziari, che hanno sfruttato impropriamente i prodotti menzionati sopra con obiettivi di liquidità, al fine di fronteggiare il proprio fabbisogno interno.

La Corte dei Conti ha fatto riferimento ad una sorta di spirale perversa in relazione a quella innescata dall’impennata dei tassi di interesse, che ha determinato la catastrofe dei vecchi derivati in perdita, riorganizzati poi in nuovi derivati ma assoggettati a condizioni “sempre più rischiose, squilibrate e opache”, legate a perdite gravose circa le future gestioni e con un’esposizione finanziaria “progressivamente crescente e insostenibile”.

La rinegoziazione dei debiti e dei derivati per fronteggiare il finanziamento del fabbisogno di cassa ha continuato nel tempo solo a procrastinare le perdite e l’estinzione delle rate più pesanti. Motivo per cui a partire dal 25 giugno 2008 si è reso necessario apporre divieto legislativo circa il ricorso ai derivati.

Ma facciamo ancora un passo indietro per approfondire meglio la questione.

Per oltre quindici anni le banche italiane – ma soprattutto quelle estere – hanno addossato a 797 enti locali presenti in tutta Italia decine e decine di contratti derivati, materia incomprensibile alla maggior parte dei fruitori. Improvvisamente, Province, Regioni e Comuni si sono ritrovati a loro insaputa con buchi di miliardi, senza contare il fatto che le conseguenze di quei contratti perdurano tutt’oggi e continueranno a far sentire i loro effetti ancora per molti anni futuri, dal momento che molti di questi contratti hanno validità trentennale. Di cosa stiamo parlando? Di scommesse e sotterfugi mascherati da assicurazioni, laddove in realtà è proprio l’assicurato a fungere da assicuratore nei confronti della propria banca.

A fronte di perdite incredibili, nel 2014 il Governo ha vietato questi contratti ma il Ministero dell’Economia può contare ad oggi la presenza di ben 149 enti territoriali ancora coinvolti, enti che ogni anno sborsano – oltre gli interessi sul debito – 250 milioni per i derivati.

Il meccanismo

Non solo gli enti locali, ma anche lo Stato ha sottoscritto contratti per oltre 150 miliardi a tutelare il rischio di rialzo dei tassi sui titoli a finanziamento del debito pubblico. Si tratta di operazioni rinegoziate poi nell’arco degli anni, ma spesso le rinegoziazioni hanno contemplato formule calibrate su anticipi di denaro piuttosto sostanziosi. Il meccanismo basilare si innesca su questo principio: l’assicurazione mi garantisce che qualora i tassi andranno oltre il 3% io andrò a pagare sempre il 3%, anche se questi si abbasseranno (cosa che poi è accaduta nel tempo).

Ci si chiede perchè sottoscrivere contratti di questo tipo se la grande maggioranza dei titoli è già a tasso fisso? Inoltre, dal momento che bisogna coprire delle perdite e quindi urge liquidità, si rende necessaria una seconda operazione per tappare un buco di cassa, sul quale si andranno a pagare interessi anche più alti, ingigantendo così il quadro debitorio. Insomma, parliamo di rinegoziazioni che non fanno altro che procrastinare il problema e sulle quali gli istituti di credito continuano a lucrare milioni su milioni sotto forma di commissioni.

Le perdite statali? 36 miliardi

L’Eurostat ha stimato che dal 2011 sono stati pagati alle banche circa 37,5 miliardi di interessi, i quali sono andati ad alimentare il debito pubblico. Le perdite stimate che imperversano invece sulle tasche dello Stato ammontano a circa 36 miliari di euro, equivalenti cioè al 37% del valore nozionale pertinente i derivati in essere. L’Ifa Consulting – ossia la società di consulenza finanziaria indipendente – ha predetto che la possibilità di esborso di questi soldi nei prossimi anni sarebbe molto alta.

La sentenza

Ma ecco il colpo di scena. Adesso la maggior parte di questi contratti potrebbe essere considerata nulla, a detta dell’autorità giurisdizionale più importante d’Italia. In coda ad anni ed anni di diatribe in merito, colpevoli di aver animato gli scontri più accaniti in tribunale, nel maggio 2020 la Corte di Cassazione a Sezioni Unite ha determinato quei principi applicabili ora in teoria nel merito di ogni tipo di contenzioso contro i vari istituti di credito coinvolti.

La sentenza di riferimento per la concretizzazione di suddetti principi fa capo al comune di Cattolica e alla banca Bnl, in relazione ad un derivato sottoscritto nel 2003. A seguito di un contenzioso protrattosi per anni, i giudici hanno stabilito che questa tipologia di contratti è nulla e non sottoscrivibile, per sei motivi diversi:

1) I derivati negli enti locali sono ammessi solo come “copertura dei rischi” e non come scommessa sui tassi;

2) l’ente locale deve essere sempre a conoscenza del rischio massimo a cui è esposto;

3) l’ente coinvolto deve conoscere il valore del contratto, in gergo il “mark-to-market”;

4) l’ente deve essere informato sulle probabilità che ha di perdere o guadagnare;

5) l’ente deve essere informato sui costi occulti, nascosti per anni agli enti, attratti dalla liquidità che l’istituto di credito versava loro all’inizio, il cosiddetto “upfront”. In altre parole, l’amministratore locale si indebitava scommettendo sui tassi di interesse da pagare, otteneva subito dei soldi – ottimi da impiegare per conquistare il consenso elettorale – e rimetteva tutto sul conto dei sindaci o degli amministratori che sarebbero seguiti;

6) la Cassazione ha determinato il principio secondo cui, quando si ristruttura un debito con contratti derivati, deve essere valorizzata la convenienza economica e non esclusivamente quella finanziaria.

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